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Vitamina D e coronavirus: c'è un nesso?

 

Come per ogni altra malattia, da settimane girano su Internet cure miracolose che qualcuno ci terrebbe nascoste per chissà quale motivo. Una di queste sarebbe la banalissima vitamina D, il cui deficit porrebbe il soggetto a maggiori rischi di infezione e una volta infetto a rischi di complicanze anche fatali.


Il tutto nasce da un’analisi realizzata da due docenti dell’Università di Torino, Giancarlo Isaia e Enzo Medico, secondo cui la gran parte dei pazienti ricoverati per Covid-19 mostrano ipovitaminosi D, in parole povere una carenza dell’ormone.
«Lo spirito del documento non è dimostrare l’efficacia della vitamina D specificamente sull’infezione da Sars-CoV-2, bensì richiamare l’attenzione generale sulla necessità di assicurare a tutti i soggetti anziani normali livelli di questa vitamina — sottolineano gli autori —, onde evitare che molti di essi, soprattutto quelli a rischio, possano ritrovarsi più esposti al danno conseguente alla patologia da Covid-19».
La ragionevole posizione dei due scienziati si è trasformata nell’agorà social – irragionevole per natura intrinseca – in “cura miracolosa”. Peraltro, molti colleghi dei due scienziati torinesi hanno espresso dubbi sull’approccio scelto. Luca Richeldi, primario di Pneumologia del Policlinico Gemelli di Roma e membro della Commissione tecnico-scientifica del Ministero della Sanità, ha commentato intervistato dal Corriere della Sera: «La vitamina D va integrata quando è carente, ma non ha a che fare con il coronavirus. Ovviamente una persona che ha carenza di questa vitamina ha un sistema immunitario non efficiente, ma non c’è alcun collegamento. Bisogna stare attenti, anche perché abusandone si rischia l’insufficienza renale».
«La vitamina D, così come altre sostanze (vitamina C, glutatione), può contribuire a rafforzare le difese immunitarie, se assunta con continuità, ma certamente non previene l’infezione da Sars-CoV-2 — conferma Filippo Drago, docente di Farmacologia e direttore dell’Unità di Farmacologia clinica al Policlinico di Catania —. Solo un vaccino potrebbe difenderci dal coronavirus, promuovendo la formazione di anticorpi specifici. Un generico rafforzamento del sistema immunitario non ci mette al riparo dal contagio e dall’aggravarsi dell’infezione. Quindi ipotizzare un’azione diretta della vitamina D nei confronti di Covid-19 non avrebbe alcuna base scientifica. Aggiungo che i dati di letteratura ad oggi disponibili mostrano che questa sostanza agisce principalmente sull’immunità innata, stimolando la formazione di particolari cellule e aumentando la resistenza ai patogeni. Esistono però studi secondo cui la cosiddetta “immunità adattativa”, formata principalmente dai linfociti, potrebbe essere addirittura inibita da alte dosi di vitamina D. Dunque la prudenza è d’obbligo. Infine, dobbiamo consigliare a tutti la vitamina D perché “male non fa”? Direi di no: gli integratori a basse dosi non incidono sui livelli della sostanza nel sangue e la supplementazione farmacologica, l’unica efficace, viene prescritta solo a fronte di una carenza comprovata da esami ematici».
Sulla stessa falsariga, seppur meno tranchant il parere di Maria Luisa Brandi, presidente della Fondazione Firmo (Federazione italiana ricerca sulle malattie dell’osso), «puntare sulla prevenzione e raccomandare di alzare i livelli di vitamina D per sostenere il nostro sistema immunitario può solo portare a un effetto positivo, anche se certamente non misurabile. Ma va ricordato che la vitamina D non può e non deve essere considerata la panacea per tutti i mali — avverte Brandi, professore ordinario di Endocrinologia e malattie del metabolismo all’Università di Firenze, responsabile del Centro regionale di riferimento su Tumori endocrini ereditari e direttore dell’Unità operativa di Malattie del metabolismo minerale e osseo dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Careggi —. L’obiettivo primario di questo ormone è regolare il metabolismo minerale, in prevenzione sia primaria che secondaria dell’osteoporosi, che si stima arrivi a colpire fino a 5 milioni di italiani».
«È chiaro che non disponiamo di dati specifici sulla vitamina D nell’infezione da coronavirus. Nella popolazione molto anziana la carenza è normale se la sostanza non viene somministrata come supplemento, quindi non è facile mettere in correlazione bassi livelli di vitamina D con un’infezione complicata da Covid-19. Le pubblicazioni degli ultimi 30 anni ci dicono che questa sostanza ha un effetto importante sulle nostre difese naturali, ma i dosaggi che dovremmo somministrare per influenzare la risposta immunitaria sono un po’ troppo alti e non possono essere raccomandati a tutti».

 di Sperelli

 

Fonte: https://www.okmedicina.it/index.php?option=com_community&view=groups&task=viewbulletin&groupid=172&bulletinid=7876&Itemid=188